A Napoli lo sanno tutti quanti che il caffè è una cosa seria.
Una cosa antica, che sempre e da sempre ne sottintende tante altre.
Lo si intuiva da bambini, quando ancora la bevanda oscura ci era proibita, o ci si concedeva di assaggiarne solo un piccolissimo goccio trasgressivo.
Lo si intuiva, perché quando si andavano a trovare i parenti gli si portava sempre almeno "nu poco 'e zucchero e cafè", per non andarci con le mani in mano; e pure loro lo portavano quando venivano: lo zucchero e il caffè formavano un binomio di cortesia semplice semplice, e andavano a braccetto perché erano sostanze elementari, che in casa servivano sempre e con cui non si poteva mai sbagliare.
Lo si intuiva perché sempre, il caffè era la prima cosa che veniva offerta o che si offriva.
A chi veniva a trovarci, a chi pure era solo di passaggio; a chi era appena arrivato o stava andando via si proponeva il caffè.
Almeno il caffè!
Perché qui fare il caffè è la più immediata forma di ospitalità, la più vecchia, elementare premura.
Bere il caffè è un attimo, eppure è molto più di questo: c'è un rito che comincia col nominarlo, col proporlo, il caffè; che passa attraverso una piccola danza di parole e gesti familiari: il raccogliersi attorno alla tavola, ciascuno con la sua tazzina che fuma, da cui bere a piccoli sorsi il liquido bollente che subito finisce, ma il cui sapore forte persiste nella bocca ancora un poco...
Un rito che finisce col posare la tazzina, che si esaurisce in questa effimera soddisfazione cui è così abituale e confortante abbandonarsi.
E tutti quelli che lo fanno buono, ritengono di avere il loro segreto, guadagnato con lunga esperienza e continui perfezionamenti.
Qualche volta il segreto si condivide con una persona fidata... e sempre, altro non era che un minuscolo particolare; un gesto apparentemente irrilevante, ma che per caso o per forza fa la differenza: un pizzico di questo o di quello in più, o in meno.
E sembra una sciocchezza, ma non lo è: tutto è importante nel rito del caffè, perché esso è una metafora di confidenza, di accoglienza, e di condivisione; un gesto che ristora e in sé racchiude una piccola pace; un momento di calma, appena un momento...
Forse il caffè è soprattutto questo: prendersi un momento.
E qualche volta in un momento c'è tutto.
E quando diciamo a qualcuno "ci prendiamo un caffè", anche lì la gamma delle sfumature di significato è praticamente infinita, perché un caffè può essere un pretesto per parlare, per concludere un affare, per fare pausa, per confidarsi o per conoscersi meglio; per suggerire a qualcuno questa antica idea di volerci passare insieme un po' di tempo (sia esso un'ora o tutta la vita), quando non trovi altro modo per dirlo.
Riflettevo sul nostro amore per il caffè, che da sempre ci spinge a declinarne le virtù in tutte le forme e le arti, e a quanto poco sappiamo, al contempo, di tutto quello che c'è dietro: cosa accade prima che esso si trasformi nella pozione magica che da sempre occupa un posto privilegiato nella nostra cultura e nella nostra socialità.
Molti di noi non riuscirebbero a farne a meno, eppure non hanno neanche mai visto una pianta del caffè, non immaginano che aspetto abbia, e nemmeno quanto siano meravigliose e ricche le sfumature rosse dei suoi frutti maturi; quanto durissimo lavoro costi e quanto spesso questo sia stato sfruttato e strumentalizzato.
Quella che vedete qui è la tavola con cui ho partecipato al Concorso di Illustrazione "Para todos todo" bandito lo scorso maggio dall' Associazione Qui e Là, in collaborazione con l'Associazione Tatawelo, con LiberoMondo e con l'Associazione Post Scriptum.
Il progetto Tatawelo si impegna da anni a sostenere le comunità indigene zapatiste del Chiapas attraverso la commercializzazione solidale del caffè.
Ci comportiamo come se il caffè fosse nostro da sempre, senza pensare che prima del nostro c'è un altro caffè, quello che cresce nelle terre lontane e assolatissime dell' Equatore, quello che va curato attentamente, come un bambino che muove i primi passi; che va nutrito, compreso, preservato; maneggiato con le opportune e millenarie conoscenze, nel rispetto della terra che l'ha generato e della vita di quanti siano ad esso legati e da esso dipendano.
In queste terre i rituali legati al caffè sono certo diversi dai nostri, ma altrettanto, forse più viscerali e più forti.
Riflettevo su questa ricchezza di simbologie e significati, pensando alle comunità zapatiste, che lottano per affermare il proprio diritto a vivere dignitosamente, senza lasciarsi soggiogare da una più ricca cultura; ci pensavo vedendo le foto di queste donne col volto coperto, con i grandi cesti in grembo e i bimbi in fascia, infaticabili e agguerrite, che seminano e raccolgono insieme col caffè qualcosa di molto più prezioso.
Perché anche qui il caffè è una metafora, ma prima di tutto di libertà e di autodeterminazione.
Un simbolo della lotta e del lavoro che ripaga.
Un simbolo di armonia con la propria cultura e con la terra, a cui spetta un rispetto immenso che spesso erroneamente scordiamo.
Esiste nella terra una magia potente che tutto investe.
C'è infinita magia, infinito potere nei frutti della terra, ed è un potere che giunge fino a noi in mille e oscure forme diverse.
Bisogna sapere come usarlo, perché sia fonte di dignità e di giustizia e non di sopruso e oppressione.
Forse non abbiamo idea e non siamo abituati a pensarci, ma anche nelle nostre tazzine c'è una piccola magia, che proviene da molto lontano e che ha persino più significato di quanto noi vi attribuiamo già.
C'è una piccola magia...
E qualcosa in noi lo intuiva già.